Lavorando da diversi anni, mi accorgo sempre di più quanto il lessico rifletta l’atteggiamento di chi decide di aprire un’attività.
Non mi è mai piaciuto parlare di “dipendenti”, perché ritengo che gli individui con cui collaboro non siano subordinati alla mia persona quanto a loro stessi.
E’ ciò che dico sempre in sede di colloquio: “in Heply io non sono il capo e non mi aspetto un trattamento differenziato dagli altri.”
Allo stesso modo, il modo in cui vengono condotti i processi di selezione in questa piccola-grande realtà chiamata Heply si differenzia dai tradizionali colloqui. Le competenze personali vengono valutate, certo, ma con una modalità differente dal solito.
Il mio interesse non si basa su termini quantitativi, su quali voti le persone con cui mi interfaccio abbiano portato a termini i loro studi accademici, né sull’esito delle precedenti esperienze lavorative. Quando mi trovo davanti ad un individuo mi chiedo semplicemente in che modo potrebbe valorizzare la nostra azienda e in che modo lei/lui potrebbe risultare se stesso in questo contesto.
Apprezzo chi si presenta personalmente alla porta di Heply con la voglia di mettersi in gioco; chi si conquista il suo “happy place” non per mezzo del suo voto di laurea ma per altri valori in cui io credo molto come la perseveranza e il coraggio. Stimo chi ogni giorno fa del suo meglio aiutandomi a far crescere la nostra realtà. Ammiro chi si impegna in silenzio, consapevole che tutto il resto è palcoscenico.
Per questo motivo non li chiamo dipendenti ma collaboratori: siamo tutti dotati di peculiarità, esigenze e contesti originari diversi, ma remiamo tutti verso lo stesso obiettivo e facciamo parte della stessa squadra.
In veste di Chief Happiness Officer, la mia soddisfazione più grande è quella di stimolare la produttività delle persone che hanno scelto e ogni giorno scelgono di lavorare con (e non per) me come motori e non pedine della loro azienda.