Senza dilungarmi eccessivamente sul fenomeno della pandemia che stiamo attraversando da ormai quasi un anno, che ritengo essere un argomento di conversazione ahimè costantemente presente nella nostra quotidianità, vorrei concentrarmi invece su uno degli aspetti che tale fenomeno ha portato a galla: quello della solitudine.
Durante tutte le fasi di questa pandemia, alcune più ed altre meno, ogni individuo si è ritrovato a fare i conti con una delle relazioni più complesse che si possano instaurare: quella intrapersonale con il proprio sé.
L’implementazione del lavoro da casa (che sia smart working o più probabilmente remote working) così come l’impossibilità di coltivare appieno la nostra vita sociale ha fatto sì che tutti noi ci trovassimo a trascorrere la maggior parte del tempo soli con noi stessi e i nostri pensieri.
La solitudine rappresenta uno dei concetti più astrusi e soggettivi che possano sussistere, partendo dalla definizione stessa del termine, a cui alcuni associano senza dubbio e aprioristicamente un’accezione negativa.
Ma perché è così complesso stare da soli -o meglio- con sé stessi?
Perché osservarsi in profondità e sviscerare determinati pensieri è faticoso, è dispendioso e comporta talvolta sofferenza.
La consapevolezza è un’arma a doppio taglio; chi non ha mai soffocato una presa di coscienza allontanandosi dal proprio sé ricorrendo alla compagnia altrui?
Allo stesso modo, l’introspezione può portare invece anche anche alla conquista di una maggiore self-awareness.
Bisogna “solo” imparare a farci i conti.
Alla luce di questa riflessione, il mio augurio per mè stesso, per i miei colleghi e per tutti coloro che hanno affrontato o continuano ad affrontare una battaglia con la solitudine, è quello di non avere paura di scoprire sé stessi, i propri bisogni e le proprie necessità.
Se riusciremo a stare bene in compagnia di noi stessi, sono convinto che quando potremo nuovamente incontrarci (come facevamo una volta) staremo ancora meglio.